La pandemia ha determinato un impatto dirompente sull’organizzazione del lavoro e sul rapporto tra il lavoro e la vita familiare, accelerando alcuni processi di evoluzione già in atto e producendo cambiamenti la cui portata è oggi ancora difficile da quantificare e qualificare.
Dallo scoppio dell’emergenza a oggi, il 37,7% delle PMI hanno praticato il lavoro a distanza, ma solo poche di queste (8,4%) lo praticavano già in precedenza, spesso su un numero limitato di lavoratori cui l’impresa riconosceva maggiore flessibilità in ragione di esigenze familiari specifiche. Il dato davvero significativo è invece rappresentato dal 29,3% di PMI che hanno introdotto il lavoro a distanza in occasione dello scoppio dell’emergenza, che le ha di fatto costrette a sperimentare direttamente sul campo, e su un numero ampio di lavoratori, forme inedite di organizzazione e gestione del lavoro (FIGURA 60).
L’impatto è evidentemente molto differenziato per settore produttivo e caratteristiche specifiche delle imprese, ma ha riguardato trasversalmente una parte rilevante del sistema produttivo.
Tra le imprese che lo hanno adottato (37,7%), nel 22,9% dei casi il lavoro a distanza ha riguardato una quota maggioritaria della popolazione aziendale, nel 14,2% dei casi una quota compresa tra il 20% e il 50% dei lavoratori e nel rimanente 62,9% dei casi una quota inferiore al 20%.
A circa un anno e mezzo dall’inizio dell’emergenza, le PMI gestiscono l’organizzazione del lavoro in modalità diverse (FIGURA 61): 18,8% utilizzano il lavoro a distanza per la quota maggioritaria del tempo, 29,8% prevedono un equilibrio tra lavoro remoto e in presenza, 17,9% utilizzano il lavoro a distanza per una quota minoritaria del tempo. Una quota rilevante, 33,9%, non hanno adottato sistematicamente l’uno o l’altro modello privilegiando invece un sistema flessibile calibrato sulle esigenze specifiche dei lavoratori.
Il lavoro a distanza viene gestito dalle imprese con differenti politiche organizzative. Ai due estremi, il 28,3% delle PMI adottano un approccio direttivo definendo regole puntuali e prescrittive (ad esempio la turnazione dei lavoratori), mentre il 33,7% lasciano la massima libertà ai lavoratori nell’organizzare tempi, attività e luoghi del lavoro. La soluzione intermedia, in cui l’impresa definisce regole generali lasciando un certo grado di autonomia ai lavoratori, è la più diffusa e riguarda il 38,1% delle PMI coinvolte nel lavoro a distanza.
Le dichiarazioni rilasciate dalle imprese consentono di fare alcune ipotesi, benché preliminari, sugli esiti possibili di questa prolungata fase di discontinuità. Una volta superata la pandemia, la larga maggioranza delle PMI che hanno sperimentato il lavoro da remoto (71,5%) ritengono di tornare non appena possibile all’organizzazione precedente, con presenza stabile sul luogo di lavoro. Una quota comunque significativa, circa un’impresa su quattro, dichiara di volersi orientare verso un modello ibrido, che bilanci lavoro da remoto e presenza fisica. Solo un’esigua minoranza, infine, ritiene che il lavoro a distanza sarà prevalente anche una volta superata l’emergenza.
L’apertura verso modalità del lavoro più agili e flessibili è fortemente influenzata, oltre che dalle specificità dell’impresa (attività, dimensione, localizzazione…), dalla stessa cultura aziendale che informa il management e l’organizzazione stessa. La FIGURA 62 mostra il netto divario, nell’orientamento per il prossimo futuro, tra le imprese al livello iniziale di sviluppo nel welfare aziendale e le imprese con un livello alto o molto alto. Per queste ultime, l’equilibrio tra lavoro a distanza e in presenza è infatti l’opzione che raccoglie il consenso più diffuso (55,2%).
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